Il 22 luglio del 1942, 70 anni fa, cominciò lo sterminio
degli ebrei di Varsavia: la così detta liquidazione del Ghetto. Lo vogliamo
ricordare segnalando un paio di libri. Il primo: “Il ghetto di Varsavia lotta”,
di Marek Edelman (Giuntina), le memorie del famoso resistente, scomparso,
novantenne, qualche anno fa. Quel 22 luglio partì il primo treno che diede
inizio alla grande deportazione verso Treblinka, dove furono sterminati, in
meno di otto mesi, 800 mila ebrei. Treblinka fu un puro campo di sterminio, non
aveva baracche, nessuna vittima vi trascorse una sola notte. Il binario moriva in una finta stazione, su
un piazzale dove l’omicidio poteva solo essere ritardato. Il Ghetto di Varsavia
esalerà l’ultimo respiro nel maggio del 1943 dopo una disperata difesa, ma da
quelle ceneri ancora fumanti stava già risorgendo il futuro del popolo di
Israele, come ci ricordano le ultime parole di Mordechai Anilewicz, il
comandante dell’Organizzazione di combattimento, scritte durante la battaglia:
“L'ultimo desiderio della mia vita si è avverata. L’autodifesa ebraica è
diventato un dato di fatto. Vendetta e resistenza ebraica sono diventati di
attualità. Sono felice di essere stato uno dei primi combattenti ebraici nel
ghetto. Ora, da dove ci verrà il soccorso?"
Il soccorso era ancora lontano, ma nemmeno troppo. L’avanzata dell’Armata Rossa verso Berlino era
già cominciata. Tra quei soldati c’era Vasilij Grossman, il primo scrittore e
il primo ebreo combattente a trovarsi di fronte alla realtà di quella cosa che
ancora non si chiamava Shoah. Per un strano gioco del destino Grossman incontrò
quella realtà, che poi lo condizionerà per il resto della sua vita di scrittore
e di uomo, proprio nei suoi luoghi natali, in Ucraina, a Berdicev, dove cercò
invano la fossa dove era stata gettata la madre. In un articolo dell’ottobre di
quell’anno lo scrittore dice di avere l’impressione di compiere un viaggio
indietro nel tempo. Allontanandosi da Stalingrado, dove si era sentito
pienamente uomo tra altri uomini in uno schietto senso di uguaglianza, in quel
viaggio cominciò a prendere coscienza della sua identità ebraica, come
diversità e problema all’interno della società sovietica. “L’inferno di
Treblinka” di Vasilij Grossman, è stato ristampato da Adelphi (2011). L’autore,
che può essere considerato il primo scrittore di memoria della Shoah, non operò
solo in termini documentaristici, in presa diretta, per così dire, com’era
naturale essendo egli corrispondente di guerra, ma con quel distacco che solo
il grande artista poteva mettere in campo, fino a farne indagine delle radici
del male nella storia umana. Grossman entrando al campo ci descrive il terreno
sabbioso, i pini, l’erica e gli arbusti, le massicciate tristi e annerite della
ferrovia, le erbacce che vi crescono intorno; il suo sguardo implacabile eppure
incredulo sulla realtà dei fatti, è lo stesso che abbiamo anche noi tanti
decenni dopo: lo sguardo di chi sa ormai tutto e, ugualmente, si sente senza
risposte. Nonostante tutto sia scritto, semplicemente le domande non possono
esaurirsi. Continueranno ad accompagnarci, anche quando se ne saranno andati
gli ultimi testimoni diretti. Quando poi tra centinaia di anni di tutto questo
si parlerà come di una leggenda, forse le vittime, “coloro che non ce l’hanno
fatta” o “coloro che non hanno più voce”, come le chiamava lo scrittore, continueranno
a parlare nei sogni. Grossman scrisse due lettere alla madre morta. La prima
nel 1950 e la seconda nel settembre 1961, in due momenti critici della sua attività
di scrittore alle prese con l’ostracismo del regime sovietico che lo ridusse
lentamente al silenzio. “Cara Mamma, sono venuto a sapere della tua morte
nell’inverno del 1944…Eppure già dal settembre 1941 sentivo nel mio cuore che
te ne eri andata. Mentre ero al fronte, infatti, una volta ho fatto un sogno…”.
di Primo Fornaciari
(articolo apparso sulla Voce di Romagna del 22/7/2012)