“1948” di Yoram Kaniuk (La Giuntina, 2012)
Secondo lo storico Y.H. Yurashalmi (Zakhor, 1982) la cultura
ebraica non possederebbe una storiografia come le altre, avendo privilegiato piuttosto
il tema del ricordo e della memoria. Ardua questione. Una cosa è certa, dal
limite temporale del 1948 Israele torna ad essere protagonista del proprio
destino all’interno della storia mondiale dei popoli, come non accadeva da
duemila anni. Yoram Kaniuk, nella sua opera in prosa più apprezzata e
famosa, racconta proprio questo discrimine, e lo fa da
scrittore, non da storico, affrontando con la sua sensibilità di artista il difficile
tema della memoria: “Non sono sicuro di quello che ricordo per davvero – così
comincia a raccontare il protagonista narratore - perché non mi fido della memoria. La
memoria è furba e non possiede un’unica ed esclusiva verità”; affermazione dura,
che rinvia più a un approfondimento di tipo filosofico e psicologico che
storiografico. La storia che Kaniuk racconta è un lungo e coinvolgente flash
back. L’autore ricorda, da vecchio, la sua avventura in guerra a 17 anni. E’ un
giovane di buona famiglia, ossia della piccola borghesia intellettuale di Tel
Aviv; un “sabra”, cioè un nativo della Terra d’Israele, con tutto l’orgoglio
che questo comporta. Assieme ad altri compagni si nutre di poesia e del mito di
Masada. Una gioventù bella, dura e spinosa come un fiore di deserto, che in
quel breve giro di anni si rende conto della realtà della persecuzione europea da
cui provengono padri, realtà che riconosceranno poi sul volto dei sopravvissuti all’Olocausto:
“…eravamo pionieri noi, lavoro ebraico, ebrei parlanti ebraico, e saremmo
andati nei kibbutz, avremmo fatto fiorire il deserto…avremmo sconfitto i nostri
aggressori. Avremmo cacciato gli inglesi. Saremmo diventati eroi…Tutto pur di
non diventare curvi di paura e brutti come quegli ebrei lì – così dicevamo. Che
stupidi bambini che eravamo!”.
In mezzo stanno i fatti del 1948, quando questi giovani si
trovarono a fondare uno Stato; che però, a loro insaputa, per la frattura
generazionale che si era prodotta con il loro passato europeo, forse era uno
Stato voluto dai vecchi: “uno Stato per le loro famiglie sterminate…uno Stato
per i loro morti”. Ma che cos’è uno Stato? Quale Stato costruire? Domande
difficili a cui dare risposta a diciassette anni, quando il cuore corre verso
gli ideali, come quello di salvare i clandestini che arrivano via mare;
l’ideale del giovane protagonista, che invece si trova non in mare, ma a terra,
sulle colline tra Tel Aviv e Gerusalemme, a sparare contro gli arabi. Quella
di Kaniuk non è una esatta ricostruzione storica. La guerra d’Indipendenza di
Israele si combatté in diverse fasi, scandite da cessate il fuoco imposti dalla
comunità internazionale, fu molto più complessa – e tutto sommato eroica – del
resoconto dell’autore. Si passò dal rischio di capitolazione della giovane
entità ebraica, in seguito all’invasione degli eserciti arabi coalizzati, alla progressiva presa di fiducia e rafforzamento della capacità militare di
difesa, in una maniera che ha quasi del miracoloso (ma, se si
guarda alle responsabilità umane, dovuta in larga parte alla mancanza di
coordinamento degli eserciti arabi scesi in campo, e alle loro singole avidità
di annettersi un pezzetto di Palestina ex-britannica). Quella di Kaniuk non è
una esatta ricostruzione degli eventi del 1948. Il suo non è un romanzo storico.
E’ un romanzo poetico, che usa la tecnica dello “stream of consciousness” per
descrivere lo smarrimento del protagonista in mezzo agli eventi, in balia della
battaglia, tra sangue e morti, paura e stanchezza. Ne esce un grido profetico
contro la guerra, senza età e senza luogo, valido per sempre, e perciò
meritevole di essere letto per generazioni. Un percorso onirico di grande
impatto emotivo, anche se lo sguardo dell’autore oggi, 64 anni dopo, è lucido e
disincantato su quei fatti: “Non voglio ora entrare nei singoli episodi, – dice
Kaniuk riguardo all’approccio eccessivamente critico verso Israele dei “nuovi
storici” israeliani - i fatti sono semplici, gli arabi non ci volevano, ci
attaccarono, e noi abbiamo combattuto” (Intervista a Susanna Nirenstein su La
Repubblica del 27/05/2012). Il 1948 fu un punto di incontro tra passato e futuro
di Israele. L’aver retto all’urto dell’attacco nemico compattò le fila dei partiti ebraici, determinò la fine
dell’opposizione più dura e terroristica contro gli inglesi, e la nascita della
moderna Forza di Difesa che garantirà l’esistenza di Israele fino ad oggi. Il
1948 segnò anche il punto d’incontro tra il passato e il futuro del popolo
ebraico. In quella guerra infatti si trovarono a combattere spalla a spalla gli
ex combattenti della Brigata Ebraica e i sopravvissuti dell’Olocausto, molti
dei quali, scampati alle camere a gas di Hitler, caddero in combattimento
accanto ai giovani sabra per la rinascita della patria ebraica.
Di Primo Fornaciari (articolo apparso su “La Voce di Romagna”
del 6/2/2013)